di Simone Teschioni Gallo
“Scegli il lavoro che ami e non lavorerai nemmeno un giorno in tutta la tua vita”. Non capita spesso di poter avere la fortuna di seguire la propria passione e farla diventare nel tempo un vero e proprio lavoro. Mi ritengo una persona abbastanza fortunata, essendo nel tempo riuscito a conciliare il forte interesse nutrito da sempre per il mondo dell’arte e della cultura, con l’impegno quotidiano nel dar vita a progetti ed esposizioni di opere d’arte e artisti sul territorio. La parola che al meglio identifica la mia professione è quella di “curatore”, una parola che porta in sé il significato di darsi verso il prossimo e allo stesso tempo lo scopo di valorizzare e preservare nel tempo un qualcosa, spesso una narrazione artistica, che ha lo scopo di far parlare con opere e installazioni i luoghi dell’arte e coloro che siamo abituati a chiamare artisti. La figura professionale del curatore d’arte è una figura abbastanza recente sul mercato del lavoro nella sfera dei beni culturali, una figura che nonostante la sua giovane età ha il pregio di adattarsi e trasformarsi in modo dinamico e costante verso i cambiamenti che segnano la società moderna e la quotidianità di ognuno di noi. Curare una mostra, seguire un artista, creare una narrazione, non significa semplicemente allestire una serie di quadri a parete e dargli un titolo, oppure organizzare un evento legato al mondo dell’arte che faccia parlare di sé, il lavoro del curatore scava molto più a fondo rispetto alla superficie e all’immediatezza con la quale spesso si tende a voler identificare questa professione. Essere un curatore significa calarsi a pieno nel mondo vissuto dall’artista, immedesimarsi nel suo pensiero e riuscire a valorizzare il suo lavoro dandogli eco e voce. Il ruolo del curatore potrebbe benissimo essere visto come quello di un megafono che ha il compito, attraverso il proprio lavoro, di amplificare la portata e il messaggio di cui l’artista si fa esecutore. Nella mia recente esperienza, ho avuto il privilegio di curare due mostre e programmarne una terza legate al nome di Giuliano Ghelli, pittore toscano recentemente scomparso nel 2014, esposizioni che hanno segnato in positivo la mia esperienza come curatore, permettendomi di rispolverare una memoria artistica segnata da più di 50 anni di carriera pittorica, purtroppo rilegata un po’ ai margini del dibattito culturale. Frequentare le stanze dell’Archivio del pittore fiorentino, toccare con mano le sue opere, averle sotto gli occhi ogni giorno, mi ha permesso durante le celebrazioni per i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, di poter riadattare in chiave moderna la fascinazione avuta da Ghelli per i lavori e gli studi di Leonardo, dimostrando, come dopo la mostra del 1992 di Milano curata da Carlo Pedretti, “In viaggio con Leonardo”, come questa lettura artistica legata all’indiscusso genio vinciano sia entrata a pieno nel dna dell’artista a noi contemporaneo trovandone un riscontro pratico e pittorico perfino nelle opere e nei lavori più recenti.
Il fascino del curatore è proprio quello dell’entrare in sintonia con l’artista, con il suo linguaggio, i suoi simboli, la sua vena creativa e la sua genialità. Non a caso proprio lavorando alla mostra “Leonardo da Vinci nell’arte di Giuliano Ghelli”, mi è capitato di imbattermi in un altro importante ritrovamento legato alla produzione pittorica dell’artista, ovvero i bozzetti e le prove di colore che Ghelli eseguì in occasione della realizzazione del Palio dell’Assunta del 16 agosto 2009 di Siena, vinto dalla Contrada Priora della Civetta. Lavori tutti contenuti all’interno di un cassetto che, come un sogno un po’ nascosto, sono saltati fuori e mi hanno permesso di ricreare in una mostra suggestiva, carica e densa di significato, l’intero percorso che ha portato Ghelli alla creazione di uno dei suoi più grandi capolavori mai realizzati. La ricerca e lo studio degli elementi come lettere, testimonianze, fotografie che immortalano un’emozione e un preciso periodo storico, sono stati in questo caso i miei attrezzi del mestiere, quegli elementi senza i quali la narrazione non avrebbe avuto voce, non si sarebbe figurata con una sua precisa identità e una sua anima. Essere un curatore, come ho avuto modo di imparare nella mia recente esperienza, che continua oggi con il progetto “Neo Skenè – Manifesti d’artista al Teatro di Rifredi”, è sinonimo anche di spiccata sensibilità, non solo artistica, ma anche costante verso i problemi che contraddistinguono i tempi che viviamo. Una mostra ed un’esposizione hanno il compito di regalare al visitatore uno spunto, una riflessione, un breve ma significativo momento di astrazione nel quale chi osserva un’opera esposta su di una parete, possa coglierne il più ampio valore e significato, facendo propria un’esperienza di introspezione che l’artista con il suo modo di esprimersi ha voluto regalare allo spettatore. Un messaggio e un’esperienza che non necessariamente deve essere piacevole, indolore e appoggiata in tutte le sue forme, ma che sia però il più possibile compresa grazie appunto al lavoro del curatore, che al pari dell’artista o se si tratta di una mostra collettiva, al pari di tutti gli artisti scelti e chiamati in causa, ha il compito di suscitare in chi osserva quello spunto di dibattito e quel punto interrogativo, di cui le opere si fanno promotrici e manifesto.
