di Roberto Bonaiuti
Capita, nella vita, di svolgere un lavoro che ti piace e questo si può già considerare una fortuna.
Capita, magari ai più toccati dalla buona sorte, che questa attività addirittura ti possa appassionare. Ma è certamente più raro che tale occupazione sia una sintesi perfetta di quello che hai sognato fino dalla più tenera età. E cosa dire nel caso che, quello che fai per guadagnarti lo stipendio, sia un lavoro così particolare da rendere difficile dichiararlo. Almeno senza sollevare un divertito scetticismo nell’interlocutore, il quale venga raggiunto dal dubbio che possa essere frutto solo della tua fantasia?
Più o meno sono queste le reazioni che ho riscontrato ogni qualvolta mi veniva posta la fatidica domanda: – Di cosa ti occupi esattamente? – Alla mia laconica risposta: – Sono un restauratore subacqueo – La reazione più frequente era quella che ho voluto sintetizzare nel titolo di questo racconto – Sì, certo, sarebbe una specie di “palombaro ciclista!” – Il tutto condito di sorrisini e ammiccamenti come a dire – Dai su! Ma a chi la vuoi dare a bere? –
In verità devo ammettere che si tratta perlomeno di un lavoro inconsueto, ed obiettivamente, per non suscitare gli effetti di cui sopra, ti devi sperticare in una spiegazione più articolata. Spiegazione che perlomeno chiarisca le circostanze che ti hanno portato a praticare la professione di restauratore, già di per sé abbastanza particolare, in un ambiente così insolito come quello subacqueo.
Ecco allora quanto: Dal 1984, quando tramite il classico concorso venni assegnato in forza al Centro di Restauro dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana, mi sono sempre occupato di restauro di materiali archeologici. Erano anni di grande fermento, nella Soprintendenza e in particolare nel suo laboratorio di restauro, dovuto in parte all’ eccezionale popolarità suscitata nell’82 dall’esposizione dei Bronzi di Riace, ma soprattutto alla vulcanica personalità dell’allora soprintendente Francesco Nicosia. Personaggio molto discusso all’epoca. Amato e odiato con pari intensità da colleghi, collaboratori, sottoposti e interlocutori di vario livello e posizione istituzionale. Ma innegabilmente competente e capace di dar vita a iniziative eclatanti, le quali puntualmente, erano in grado di monopolizzare l’attenzione su quel mondo, quello dell’archeologia, fino ad allora distante dal grande pubblico, relegato com’era nei ristretti circoli accademici.
E fu giusto questo eclettico Indiana Jones di casa nostra, al grido che la ricerca archeologica e la tutela del nostro patrimonio non potevano fermarsi ai limiti della battigia, a dar vita a quell’organismo del quale, di lì a poco, anche io avrei fatto parte.
Da un territorio così storicamente vincolato al mare come la Toscana, con la sua lunga linea costiera e con il suo arcipelago, arrivavano quotidianamente notizie di ritrovamenti di antichi reperti. Consegne spontanee da parte di pescatori o sommozzatori sportivi, segnalazioni delle capitanerie di porto, di turisti e quant’altro testimoniavano la ricchezza dei nostri fondali. Per non parlare del massiccio lavoro dei carabinieri del Nucleo Tutela e della Guardia di Finanza impegnati nel recupero di beni trafugati clandestinamente, di chiara provenienza marina.
Così dai primi anni ’80, si incrementarono le attività sottomarine legate alla ricerca archeologica.
Nell’84 un primo vero e proprio cantiere di scavo, sul relitto romano di Giglio Porto, al quale parteciparono alcune professionalità della Soprintendenza e un nutrito gruppo di volontari appartenenti a storiche associazioni subacquee fiorentine, come il GASF (Gruppo Archeologico Subacqueo Fiorentino) e l’ASF (Associazione Sommozzatori Firenze).
Dopo queste prime esperienze il dottor Nicosia decise che era l’ora di formare una vera e propria squadra di subacquei in seno alla soprintendenza. Fece diramare una circolare, attraverso la quale si chiedeva al personale interno, che fosse in possesso di brevetto subacqueo, se fosse interessato a partecipare alle attività sottomarine. Appassionato d’immersioni fin da ragazzo ed avendo conseguito il brevetto già da qualche anno, risposi con entusiasmo all’appello.
Da lì iniziò a formarsi un primo gruppo che dopo pochi anni avrebbe dato vita al N.O.S. il Nucleo Operativo Subacqueo della Soprintendenza Archeologica della Toscana, l’organismo più completo, per quanto riguarda le capacità operative subacquee in campo archeologico, di tutte le soprintendenze italiane. Infatti al suo interno conteneva le diverse specializzazioni, dall’archeologo al fotografo, dal restauratore (presente!) al disegnatore oltre a operatori subacquei specializzati.
Dopo aver spiegato, in sintesi, come mi sono trovato a dedicarmi a questa particolare professione, so bene che devo aspettarmi, di prassi le domande successive (anche queste poste con un filo d’ironia):
–E cosa fa esattamente un restauratore subacqueo? Restaura sott’acqua? – Avete ragione, la parola “restauro” evoca, nei più, immagini di minuziosi ritocchi amanuensi su antichi dipinti o di paziente opera di ricostruzione di statue o vasi pregiati ridotti in frammenti. In realtà le mansioni del restauratore sono molteplici. In particolare in uno scavo archeologico il restauratore ha il compito di prendersi cura dei preziosi reperti fino dal momento dell’estrazione dal terreno, o come nel mio caso, dalle profondità del mare, dato che è proprio il rinvenimento la fase più rischiosa per la salvaguardia del bene archeologico. Quindi proteggere gli oggetti più fragili, studiare i metodi di recupero meno traumatici, applicando sostegni che ne garantissero l’integrità durante la movimentazione, avviare sul campo i primi procedimenti per la conservazione, sono stati i miei compiti principali in tutti questi anni. Comunque, anche se in minor parte, non sono mancati veri e propri interventi di restauro su reperti che, per decisione della soprintendenza, dovevano rimanere sul fondale in quanto ormai facevano parte del paesaggio sottomarino ed erano meta di un turismo subacqueo sempre più interessato ad escursioni per ammirare i resti del nostro passato.
Ecco spiegato come mi sono trovato a dedicarmi a questa particolare professione per un arco di oltre 25 anni, e devo dire che è stato un periodo del quale serbo ricordi bellissimi. Ho avuto modo di incontrare personaggi singolari, tutti accomunati da un’identica passione per la loro professione e per il mare. Ho collaborato con i nuclei sommozzatori di tutti gli organismi dello stato, dai vigili del fuoco ai carabinieri, professionisti straordinari da ognuno dei quali ho tratto esperienze preziose. Sono stati anni di intense attività delle quali serbo una folla di ricordi. Potrei dilungarmi in aneddoti riguardo circostanze particolari, talvolta avventurose, nelle quali ci siamo trovati operando in questo ambiente liquido già di per sé innegabilmente fantastico. Forse non sono nemmeno in grado di trasmettere nella giusta maniera le sensazioni e le esperienze che ci hanno visto protagonisti, ma mi preme mettervi a parte di un’esperienza che a parer mio non ha eguali: la scoperta di un antico relitto.
Ho avuto più volte la fortuna di partecipare a scavi sui resti di antiche imbarcazioni, alcuni di questi casi si sono fissati nella mia memoria in modo permanente. Veder ricomparire, man mano che viene liberato dalla sabbia e dal fango, che lo hanno ricoperto per duemila anni, uno scafo di epoca romana ancora con gran parte del suo carico, rappresenta un’emozione veramente unica. Una sensazione formata da molte componenti, dove convivono, certamente, l’euforia per il concretizzarsi di una ricerca e il successo del ritrovamento, ma anche una certa percezione di disagio. Un sottile senso di intrusione in un tragico evento lontano, che ha riguardato la vita di persone vere, e per questo meritevole di un profondo rispetto. Essere i primi dopo un interminabile oblio a toccare le strutture lignee, la scassa dell’albero maestro, le tavole del fasciame, gli scalmi dei remi. A rimuovere le anfore ancora impilate, poste ancora una accanto all’altra, come fossero state appena caricate non si può fare a meno di pensare a quella gente che solcava il nostro mediterraneo, con i loro sogni, le loro aspettative, i loro timori. E non si può fare a meno di pensare ad un parallelo che ci unisce a quel mondo così lontano, ma per certi versi così simile. Da sempre l’uomo sfida il mare e i suoi terribili capricci. Pochi fortunati per puro piacere o per sete di avventura, molti per necessità legate al proprio lavoro, la pesca, i commerci. Oppure perché il mare rappresentava e rappresenta tutt’oggi, l’unica via di fuga da una terra che gli è ostile, alla ricerca di un futuro migliore.