di Giulia Spalla

(Fra arte e mestiere, ricordi dall’autobiografia della nonna Tosca)

Io cucio da quando avevo undici anni e non ho mai smesso.

La passione per cucire mi venne fin da piccola; cercavo sempre i cencini per fare i vestiti alle bambole.

È stata la signora Vittoria, che abitava nel nostro palazzo, a insegnarmi il mestiere: m’ha messo subito a cucire a macchina, m’ha insegnato tutto. Quando andava a provare a casa delle clienti mi portava con sé; andavo da queste signore, le passavo gli spilli. 

Poi quando tagliava mi diceva: “Guarda come si fa, tu devi rubare con gli occhi”. 

Io ero felice.

Prima di mettere le forbici sulla stoffa bisogna essere sicuri, il primo vestito meglio farlo a una persona di famiglia; io a sedici anni lo feci alla mia mamma: le stava largo, avevo paura a farglielo stretto. 

E lei: “E’ largo!”.

“Mamma per piacere, è il primo vestito che fo, poi te lo stringerò”. 

Alla fine venne un vestitino bellino e lo faceva vedere a tutti: “Me l’ha fatto la mi’ figliola, è il suo primo vestito”. Era blu a bolle di tutti i colori, s’era comprato la stoffa dal Fini e poi c’era il colletto bianco di chiffon e un bel fiocco davanti; glielo feci tutto sfilato col giornino

Il primo vestito uno non se lo scorda mai.

Sono stata dalla signora Vittoria finché ho saputo cucire abbastanza bene. 

Poi, due o tre portoni più in là, c’era una ragazza che faceva la sarta e voleva un’aiutante. Io sapevo fare i sopraggitti; prima si faceva il sopraggitto a mano e le costure. 

Andai da lei e ci stetti un pochino.

Dopo, tramite la mia mamma, trovai l’Attilia, una signora che mi faceva azzardare di più, mi faceva tagliare. Lì ci sono stata parecchio.

Poi passai in un posto, al Ponte Rosso vicino al Parterre, a fare l’aiuto lavorante. La lavorante andava a provare, levava tutti i difetti. Io mettevo in doppio la roba, tiravo tutti i segni, sopraggittavo, andavo a macchina. 

Lì mi perfezionai. 

Poi dopo c’era la guerra c’erano i bombardamenti, il mio fratello lo chiamarono soldato e il mio babbo diceva: “Vieni a casa, ho paura, tu sei al Parterre, la mamma è qui”. 

Allora venni via e mi misi a lavorare a casa. 

In casa lavoravo da sola: facevo i modelli e trovavo le clienti.

Sai come succede: “Sai la figliola dell’Arduina la fa la sarta…”, era un borghettino, ci si conosceva tutti e quindi venne un po’ di gente. Le clienti a volte mi facevano tirare fuori i soldi per la roba, ma poi non mi pagavano e io a chiedere i soldi mi vergognavo.

Alla fine cercai sul giornale qualcosa e offrivano un lavoro dalla Luisa, in Via Roma. 

Mi presentai, mi fece fare una prova e mi prese; il lavoro me lo mandava a casa, aveva il camion con l’autista. Mi disse: “Quando viene l’autista le dà l’assegno e il giorno dopo la può venire qui e riscuote”.

Lavorai parecchio tempo per la Luisa. 

Poi dopo, quando mi sposai, stetti a casa con la mia cognata: lei lavorava per il Fini e io lavorai insieme a lei, rilevavo i modelli, mi sono arrangiata. 

Una sarta se lo faceva da sé il modello, ma a volte si diceva: “Saranno giuste queste misure?”.

Quelle che avevano fatto disegno, se dovevano allargarlo appena, facevano le curve col centimetro; noi si sapeva a occhio dove dargli le curve; nel punto della vita, nel punto del petto. 

Un giorno vidi sul giornale che a Ferragamo cercavano una sarta. 

Glielo dissi a Mario, il mio marito, ma lui era contrario: “A me mi sembra di morto lontano e poi tu ce l’hai il lavoro. Fai te”. 

A me peró sembrava più bello. 

Andai, mi presentai qui in centro, parlai con la signora: “Lei per chi ha lavorato?”, mi chiese.  

Le dissi la verità. 

“Sicché ha fatto un po’ di tutto?”. 

“Sì, ho fatto le gonne, i vestiti, i cappotti”.

“È specializzata in qualcosa?”.

“Signora non lo so se sono specializzata in qualcosa”. 

“E perché ha smesso?”. 

“Perché a volte non mi pagavano e mi toccava andare a chiedere i quattrini e mi vergognavo. Preferisco prendere meno”. 

“Mi piace perché è sincera, la deve lavorare anche bene. Senta, c’ho da fare delle sottane di seta pura, fini, leggere, se la sente? Sono semplici, però sono tutte a righe e le righe devon tutte tornare”.

“Sì, tutt’al più le ripago la stoffa”, risposi.

Erano sottane a righe con delle belle tasche, messe a bombè, a toppa; mi dette il modello di cartone e disse: “Ne faccia una e la mi porti a far vedere”.

Ne feci una e gliela portai; la rovesciò subito e guardò com’era fatta. 

Io ci rimasi: “Come mai signora la guarda al rovescio?”.

“Perché al rovescio capisco il lavoro che la fa lei”. 

Figurati l’avevo sopraggittata, fatto il giornino, il soppuntino per benino, niente orli a macchina; avevo attaccato i ganci alla cintura, poi c’erano delle tasche grandi. 

Guardò punto per punto, io bollivo.

Mi disse: “Senta signora, non creda che questa me la porta fatta bene perché è la prima”. 

Io: “Signora, questo è il mio lavoro”.

Mi mandò a casa le pezze della roba, erano venti; gliele feci tutte e venti per bene e disse: “Sì signora, mi piace”. 

Poi non m’ha più guardato il lavoro. 

Si faceva il campionario: per esempio due vestiti della taglia 46, due della 50, due della 44 ecc…Poi andavano in America, in Inghilterra, giravano e facevano gli ordini. Quando tornavano dicevano: “Di questi ce n’è da fare 100, di questi 25 e li davano a fare a chi aveva fatto il campione. Me ne potevano dare 100 come 25.

Quando andavo io a consegnare il lavoro, la soddisfazione era nel momento in cui la signora mi diceva che andava tutto bene. Non mi è mai capitato che era fatto male; neanche di non consegnare in tempo. Si doveva essere precisi. 

Il giorno che arrivava la stoffa li tagliavo tutti insieme la sera dopo cena, quando erano tutti andati a letto, perché non potevo essere distratta. Facevo la nottata intera, così nessuno m’interrompeva; mi preparavo tre o quattro caffè la notte.

Ogni tanto vedevo aprire la porta, era Mario che diceva: “Non vieni a letto?!”.

E io: “Ne devo tagliare ancora due”, perché erano tanti.

A volte c’era un uomo che portava su certi rotoli di stoffa. Io ci dovevo far rientrare tutti i vestiti, dovevo essere precisa, non me li davano mica a ufo. Loro sapevano che per una taglia 46 ci vuole, per dire, un metro e mezzo di roba, per la 48 di più. C’erano tutti quelli che facevano i conteggi, ma mi avanzava sempre qualcosa. 

Dicevo: “Fin qui deve rientrare un vestito, qui un altro”, me li segnavo tutti e li tagliavo uno per uno, così quando avevo finito li avevo tutti lì, non c’avevo da rispremere il cervello. A ogni vestito mettevo il bigliettino con scritta la taglia: questo è il 48, questo il 50. 

La mattina dopo dovevo prenderne uno e iniziare a farlo. Guardavo quanto ci mettevo a farne uno, perché loro mi dicevano: “Per il tot giorno si vogliono”, ma il primo ci voleva di più.  La sera non andavo a letto finché non ne avevo finito uno. 

Poi calcolavo facendo il secondo e ne facevo uno al giorno, ma sopraggittare la mi sopraggittava la mia mamma.  

Se rimanevo indietro di uno, dopo si accumulava; se la mattina dopo mi rimaneva anche solo da levare le imbastiture, era tempo che perdevo per l’altro.  A volte la mattina preparavo per andare a macchina e mi levavo alle 5. Mi preparavo tutta la roba da cucire a macchina, ma non iniziavo presto perché dovevo preparare la colazione e sistemare la cucina. Dopo, una volta che erano andati via tutti di casa e avevo bell’e rifatto i letti, si dice a Firenze “alla troia”, allora mi mettevo a lavorare; potevo far rumore, non c’era nessuno a cui davo noia.

La mattina la spesa me la facevo mandare a casa. 

Io lavoravo in cucina; prima di mangiare mettevo un lenzuolo sulla macchina e su tutto il lavoro. 

Tornavano tutti a orari diversi, poi io mangiavo alla svelta; allora non avevo la lavastoviglie, rigovernavo e lasciavo tutto lì sugli asciughini, poi mi mettevo a lavorare fino a cena. La sera uguale. 

E così via, tutti i giorni tranne la domenica. La domenica lavavo i panni e Mario faceva da mangiare.

Poi mi lasciavo l’ultima mattina per stirare e di pomeriggio Mario mi accompagnava con la macchina a consegnare, perché era lontano. 

Quando avevo le clienti private dovevo chiedere i soldi e mi scocciava, invece a Ferragamo si portava la cedola di tutti i vestiti e alla fine del mese potevo prendere l’assegno. 

Lavoravo tanto, ma mi dava soddisfazione. 

A Ferragamo ho smesso a un certo momento, perché ero al nero e venne l’ordine che tutti dovevano essere scritti. 

La signora Ferragamo mi disse: “Signora Spalla bisogna che io la segni”.

Io le dissi: “Signora a questa età”, ero vecchia. 

“Si faccia dare il nome di una persona che lavora”.

“No, questo mai. Perché io mi devo prendere la responsabilità”.

“Signora, io le posso dare il tempo di sei mesi. Se poi non ha trovato il modo di potersi segnare, bisogna che la lasci”. 

Io non mi potevo segnare, avevo già cinquantacinque anni. Cosa avrei preso di pensione? Poi, se io mi segnavo levavano gli assegni familiari a Mario.

Venni via.

Trovai sul giornale la Piccola Torino, quella che sta al ponte del Pino. Mario non aveva tanto piacere che andassi a lavorare fuori, ma io gli dissi: “Lavorare bisogna che lavori”. 

Lui: “Fai icché tu vuoi”. 

Mi presentai da questa signora e mi disse: “Come mai è venuta via da Ferragamo?”. 

E io: “Signora, mi volevano segnare. Che dice, a questa età! Levavano gli assegni al mi’ marito, che vuoi, quanto avrei preso di pensione?”. 

Mi prese, io ormai ero sarta rifinita.

Andavo in negozio la mattina, poi tornavo a casa a desinare e riuscivo a preparare, perché cercavo di fare da mangiare svelto. Si mangiava e poi ritornavo là. Andavo con l’8 fino a Piazza d’Azeglio e poi c’era un pezzettino di strada e lavoravo fino alle 19. Poi venivo a casa e avevo finito.

Mario preferiva che stessi in casa; da principio storse un po’ la bocca, poi piano piano si abituò.

Lavoravo anche perché gli stipendi non erano un granché e c’era bisogno di aiutare in famiglia. Quando si sposò la Sandra bastava lo stipendio di Mario e così smisi. 

La signora mi disse: “Come mai viene via signora Spalla?”. 

Le dissi: “Mi si sposa la figliola. Il mio intento era aiutare finché i figlioli si fossero sistemati. Ora c’ho da fare il vestito da sposa alla mi’ figliola”. 

Anche a lei dispiacque. 

Da lì smisi di lavorare, cioè di essere dipendente. A quel punto cucivo solo per piacere: per la mia nuora, per le nipoti, ma fuori non ho più lavorato. 

Lavorare per casa non mi dava pensiero, per fuori sì, doveva essere accurato e puntuale. 

Ora che ho 95 anni lavoro ancora a casa.

Questo lavoro l’ho fatto volentieri, non ho rimpianti e se ci fosse bisogno lo rifarei. 

Del mio lavoro mi piaceva tutto, i più uggiosi da fare erano i tallierur e i cappotti, perché erano molto elaborati.

La cosa più bella era quando mettevi il vestito addosso alla persona e vedevi che le stava bene, la cliente era soddisfatta. A quel punto ero contenta.