di Carolina Pezzini
Mia nonna era una pessima cuoca. Pessima proprio nel senso di pessima.
Le ho visto bruciare padelle, annerire coperchi, lasciare bricchi d’acqua sul fuoco per ore fino a farla evaporare e credo da piccola di averle anche salvato la vita, spengendo fornelli nel mezzo della notte.
Un pericolo pubblico e privato, una forza della natura in formato gioviale e innocua signora.
Ricordo bene lo sguardo di mio nonno quando preciso come un bancario (quello aveva deciso di fare del resto) alle 12:45 si sedeva per pranzo, alzando gli occhi al cielo come a dire: “chissà icche’ mangerò a sto giro..”
AnnaMaria Giachetti, fiorentina nelle viscere e nel sangue, quando arrivava trafelata a preparare il pranzo con l’ansia che Rolando, il nonno, le facesse una rospate delle sue, mi guardava con lo sguardo da pinocchietto facendomi capire con una smorfia buffina, che a lei di “saper cucinare”, proprio non le importava nulla.
La sua vera passione del resto era viziarsi con i panini tartufati di Procacci, pranzare da Robiglio (che negli anni avrebbe cambiato con “la Grotta Guelfa” in via pellicceria) e possibilmente prendersi un campari da Paszkowski a meta’ mattina, guardando la sua Firenze quando il sole, ancora non troppo alto, sfiora la giostra al centro di Piazza della Repubblica, i rumori sono ancora ovattati, le persone sono a lavoro, suo marito pure e in quelle ore precise trova tutta la libertà di donna, figlia di una generazione che la voleva solo o principalmente ottima moglie e amorevole madre.
Era una donna fuori dal comune, amica di tanti e di nessuno, nonna eccezionale folle, spericolata.
Ricordo ancora il terrore di quando sfrecciando alla velocità della luce sulla sua cinquecento verde bottiglia desideravo prendere il suo posto alla guida e come mio nonno a pranzo, alzavo gli occhi al cielo e mi chiedevo se saremo riuscite, ancora una volta, a non stamparci contro un albero del viale dei colli, i suoi viali così li chiamava..
Insomma la cucina non era proprio il suo, ma ci sono due cose una in particolare che sì davvero, si è stampata nella mia anima: la sua pomarola.
Quando la preparava, la cucina si trasformava in un campo di battaglia, pezzi di pomodoro e cipolla nei punti più impensabili della stanza e del suo viso e padelle sporche ovunque, eppure quella donna, questa donna AnnaMaria Giachetti da quella sua incapacità di stare dietro ai fornelli, tirava fuori la più incredibile delle pomarole che io, forchetta sensibile, abbia mai mangiato e mai avrò modo di rimangiare ma il cui ricordo vive in me indelebile. Conservo ancora i suoi strumenti per fare la pomarola, ma ho perso la ricetta originale che mi avrà scritto ovunque in mille pezzettini di carta a caso, sull’onda del momento, ovunque tranne che dentro il nostro prezioso diario segreto.
La ricetta originale dunque non ce l’ho, ma di alcune cose sono certa: va fatta passare, il procedimento è lento, i pomodori sono San Marzano, le due cipolle sono bianche, la battaglia deve essere feroce, il basilico fresco e alla fine come dopo ogni lotta che si rispetti si aggiunge un cucchiaino di zucchero e per i veri golosi un tocco spesso di burro e parmigiano a pioggia.
Il resto lo fa l’anima della cuoca e le papille gustative di una nipote innamorata.
Era la peggiore cuoca che io abbia mai incontrato, la migliore che mai incontrerò.
