di Giovanni Grossi
Tutti gli anni più di una volta all’anno faccio un piccolo viaggio in bici nel Mugello partendo da casa mia a Campi. Vado a trovare il babbo e la mamma nelle strade dove loro hanno pedalato da ragazzi felici e spensierati quando, nell’immediato dopoguerra, avevano tutta la vita davanti ed io e la mia sorella non eravamo minimamente presenti nelle loro teste mentre si baciavano e facevano all’amore. A questo giro non sarò da solo. Con me c’è il mio amico Enrico. Il ritrovo è in piazza delle Cure. Oggi, la salita verso l’Olmo sembra ancora più in salita. Meno male che dopo la salita c’è sempre una discesa e meno male che, oggi, pure la discesa sembra ancora più in discesa. Si va veloci verso le strade del babbo e della mamma. A Sagginale c’è pure la mia nonna Rosa. La vedo salire su un autobus come se fosse una di quelle tante domeniche mattina in cui veniva a trovarci per fare i tortelli ed il loro, naturale e conseguente, ripieno di patate. Appena arrivata da noi, nella casa di via Chiantigiana prima e di via del Paradiso dopo, mi svegliava e mi preparava il caffellatte. Al babbo portava l’Unità e a me tre confezioni di biscotti della Doria, i Biscotti della nonna, i Bucaneve e gli Atene. I biscotti della nonna, come consuetudine, finivano per essere messi in una scatola vuota di metallo di una ditta concorrente, la Lazzaroni. Chissà poi perché. Comunque a me questa occupazione abusiva di scatola di biscotti di proprietà altrui mi pareva una cosa piuttosto scorretta e imprecisa. Una cosa più da lazzaroni, ecco. Un insegnamento, uno dei miei primi approcci con le contraddizioni della vita. I biscotti adesso erano pronti per finire la loro breve esistenza affogando in una tazza di caffellatte. Sopra il tavolo di formica verde chiaro veniva sistemata una vecchia tavolaccia di legno dove venivano fatti i tortelli, praticamente l’altare dove si celebrava questa particolare messa del matrimonio con il piacere. Il babbo si leggeva l’Unitá. Mia sorella ringhiava ancora nel
sonno, nella stanza adiacente. La nonna e la mamma cominciavano a fare l’impasto, poi lo stendevano con il mattarello di legno sulla tavolaccia. Io me ne stavo a capotavola della tavolaccia immerso nella mia preghiera al caffellatte. La farina volava dappertutto, anche sulla rubrica di Fortebraccio sulla prima pagina dell’Unitá. Dopo aver finito di stendere l’impasto la mia mamma e la sua mamma cominciavano a tagliare la pasta in piccoli fazzoletti mai uno uguale all’altro. Il silenzio regnava sovrano. Quando all’improvviso compariva la ciotola con il ripieno di patate cominciava il mio lavoro, che, guarda caso, coincideva sempre con l’ultima gozzata di caffellatte variamente colorato con le briciole dei biscotti Doria. A me era affidato un compito essenziale per la riuscita della start-up del tortello, ovvero di preparare i pezzetti del ripieno di patate da mettere al centro del fazzoletto di pasta, piegarlo e con la forchetta chiudere i bordi. Eccolo, il tortello era pronto. Ma non era finita qui. Anzi, il bello doveva ancora cominciare. Perché a me era affidato il controllo Qualità. In pratica dovevo controllare se il prodotto era buono e per farlo bene non potevo fare altro che mangiarlo. Potevo mangiarne quanti ne volevo. Nessuno mi diceva di smettere. Del resto il gioco è bello se dura quanto lo vuoi far durare. E poi, non potevamo mica correre rischi, soprattutto se c’erano invitati a pranzo. I primi tortelli confondevano il suo sapore con quello del caffellatte bevuto poco prima. Ed erano i più buoni. Per tanti anni è stato così. Ma perché si dovevano cuocere? Non erano già buoni così? Poi con il tempo, purtroppo, si cresce e mi sono accorto che anche cotti e con il ragù di carne non erano poi così male. Pedalo e comincio ad aver fame. A Ponte a Vicchio, la casa del prosciutto, uno dei templi del tortello mugellano, è chiusa. Vedo il babbo che mi taglia quasi la strada mentre sta andando a Vicchio a prendere la mamma per fare un giro in bici con lei sulla canna. Il mio babbo è nato ed ha vissuto i primi anni di vita insieme con la mamma, in una casa sulla vecchia strada che porta a Dicomano, molto riconoscibile perché sulla facciata prospiciente la strada c’è ancora la vecchia scritta, stazione di monta taurina e suina. Qui mi fermo ogni volta e qui si ferma ogni volta in me anche il rimpianto di non aver mai pensato al babbo ed alla mamma come due ragazzi con i sogni, le speranze di chi ha ancora tutta la vita davanti.
Il rimpianto di non aver mai parlato di questo con loro è un dolore che non trova rimedio.
L’unico modo, quantomeno per alleggerirlo, è quello di far lavorare, appunto, l’immaginazione. Riparto. Continuo a pedalare all’indietro. Vedo da lontano il babbo e la mamma insieme sulla stessa bici che scendono in un sentiero verso la Sieve. Mi fermo
al bivio e li sento ridere e scherzare mentre si schizzano nel fiume. Poi, all’improvviso quei rumori diventano silenzio. Capisco e per non disturbarli ricomincio a pedalare. A Dicomano io e Enrico passiamo davanti alla casa del popolo, che oggi si chiama People House ed arriviamo, finalmente, stanchi e affamati al ristorante da Sergio, pronti per mangiare i tortelli. Era questo lo scopo dichiarato. È venerdì, la sala è tutta piena e un ragazzo ci dice che non c’è posto se non abbiamo prenotato. Tragedia. Dolore. Per fortuna che possiamo optare per l’asporto. Ordiniamo. I tortelli arrivano in pochi minuti.
Ci sistemiamo su un tavolo appena fuori il ristorante ed iniziamo il rito. Sono buonissimi e caldissimi. Mangiare il tortello è la mia comunione laica. Quell’ingorgo di pasta, patate e ragù che si crea tra la lingua ed il palato è per me un modo per stabilire un contatto con il babbo e la mamma, Gigi e la Giuliana. Ed ogni volta è cosi. L’ultima volta che ho visto Gigi e la Giuliana dal vivo erano distesi dentro una bara. Le bare ora sono accanto, qui, poco lontano, nel cimitero di Dicomano. Io non so se sono ancora lì dentro a far compagnia ai vermi o se stanno pedalando in cielo dalle parti del paradiso travestiti da angeli. Non lo so e francamente nemmeno me ne importa. So una cosa però ed è l’unicacosa che conta, e cioè che nei momenti in cui mastico tortelli nei luoghi che hanno visto Gigi e la Giuliana ragazzi felici e spensierati non penso ai rimpianti, al non detto, al tempo che non ho vissuto con loro e che purtroppo non potrò più vivere, ma al tempo meraviglioso che mi è stato concesso di viverci insieme. Mi basta che Gigi e la Giuliana siano ben presenti nel paradiso che ho costruito da qualche parte dentro di me. Gigi e la Giuliana erano due contadini che per tutta la vita hanno coltivato amore. Io non ho dovuto far altro per impararlo che star lì a pigliallo tutto. A mangiare le loro ciotolate d’amore. Non hanno mai avuto la presunzione di insegnarmi qualcosa. Bastava l’esempio. Io li posso solo ringraziare perché quell’amore visto, vissuto e mangiato è stato il mio nutrimento. Il resto è niente. “Giovanni ma come son buoni questi tortelli!”.
“Buonissimi, però la mi’ nonna Rosa li faceva più buoni perché li faceva crudi al ragù di caffellatte e biscotti”. Enrico non mi sente. È già ripartito. Giusto, bisogna continuare il giro… a casa ci sono altri due ragazzi che mi aspettano.
