Di Riccardo Bartolini 

 

“ Rossi, sarà un’altra battaglia?”

“ Si e mi pare sia già cominciata”

Sono le prime parole del servizio della Domenica Sportiva del 27 Novembre 1983 su Fiorentina- Juventus. 

I due gridano nel microfono per farsi sentire nel frastuono che li circonda; Giampiero Galeazzi si ripara nel colletto di un orribile cappottone color Gabardin, Paolo Rossi è bianco in faccia, quasi trasparente, ha la maglia sporca di insalata russa.

Intorno a loro, un tappeto di mandarini. 

Sono sotto la Curva Fiesole, nel momento in cui le squadre stanno entrando in campo.

Volendo scrivere di cibo da Stadio nella Firenze degli anni ’80, cercando un mito di fondazione di questa storia, non si può che partire da qui. 

Naturalmente conosco le generalità del lanciatore di quel panino con prosciutto cotto ed insalata russa che colpì il centravanti della Juve ma questa è decisamente un’altra storia.

Per me, che negli anni ’80 ero un bambino paffuto e incline alla meraviglia, lo Stadio era il Paese dei Balocchi. 

Ci andavo, in Curva Fiesole, col babbo o con lo zio, ogni due settimane e sapevo tutto e mi ricordo tutto.

Si arrivava, specie in inverno con le partite alle 14,  verso mezzogiorno ( un’oretta prima nelle partite più importanti) per trovare un posto dalla parte della Maratona. 

Tutti facevano così e quindi quelle domeniche si trasformavano in giganteschi picnic sul cemento in cui i sapori del cibo si mescolavano con l’odore della stampa della rivista che veniva distribuita all’ingresso con tutte le informazioni  sulla partita, e  che strappavamo oscenamente per farne coriandoli da lanciare in aria all’annuncio della formazione. Spesso l’aria si riempiva dell’odore acre di qualche fumogeno che veniva acceso nel centro della curva.

La mamma preparava, con amore e rassegnato sarcasmo, i panini che mangiavamo.

Avvolti nella carta stagnola, li riempiva con l’affettato di turno e  qualcosa che li mantenesse morbidi per ore (di norma pomodori o maionese, talvolta frittata) aggiungeva una frutta. In stagione, sempre dei mandarini che, se non consumati per tempo, finivano per diventare  innocui proiettili per i bersagli più odiati tra gli avversari di turno.

Sì, allo Stadio negli anni “80 si lanciavano i mandarini e, nei casi più estremi, i primi ombrelli richiudibili.

E poi c’era il cibo che allo Stadio si poteva comprare. Un cibo meraviglioso che si trovava solo lì, che apparteneva a quel luogo magico.

La quantità di gente che riempiva la curva rendeva del tutto velleitario anche solo l’ipotesi di andare in bagno, figurarsi al bar, che si trovava sotto gli spalti e dal quale ci dividevano centinaia di metri e, soprattutto, migliaia di persone.

Ed allora si trattava di aspettare con pazienza di intravedere uno degli eroici venditori che passavano tra le fila degli spettatori, come equilibristi del Circo, con le loro borse piene di leccornie e tentare, urlando e sbracciandosi, di farsi notare in mezzo alla folla.

C’erano tre tipi di venditori, diversi per mercanzia, divisa di lavoro ed attitudine.

Il primo, il più richiesto ed il più temerario, era quello della birra.

Per me allora il meno interessante. Ricordo solo che, ad un certo punto, venne loro imposto di vendere solo birra analcolica. Diciamo che la fattispecie non li rese particolarmente popolari.

Il secondo tipo era il gelataio. Con la sua bella divisa blu, vendeva solo due tipi di gelato. l’ovvio cornetto variegato al cioccolato e, soprattutto, LA CASSATINA!!!

Una palletta ovaleggiante di gelato alla crema con i canditi ricoperta di cacao. Il gelato più buono del Mondo che non ho mai più ritrovato altrove ( e comunque non avrebbe avuto lo stesso sapore). Ti rimaneva per metà nelle dita e nella confezione e  mi veniva comprato, di solito, tra il primo e il secondo tempo.

Il terzo tipo di venditore  di cibo da stadio era forse il più affascinante. 

Vendeva semi, lupini, Caffè Borghetti e soprattutto Pocket Coffee e Billy. Devo alla passione di mio padre per gli zuccheratissimi  cioccolatini ripieni la mia attuale dipendenza dal caffè.  

Se chiudo gli occhi sanno di Pocket Coffee il primo gol di Ramon Diaz in maglia viola, una devastante progressione di Nicola Berti contro l’Inter sotto la Maratona e perfino un grosso errore difensivo di Passarella in una partita con la Juve durante i suoi primi, terribili, tre mesi a Firenze.

Ed infine il Billy ( dal nome della casa prodruttrice), devastante succhino di frutta che millantava un sapore di arancia solo intuibile, e veniva venduto in un brick di carta dall’apertura infame da forare con un’apposita cannuccia dall’igiene rivedibile.

Però è il sapore che, più di ogni altro, porto nel cuore.

Perché allora, in Primavera, accanto alla bandierina lato Maratona, sul campo, crescevano le margherite (davvero!!!). Perché stavo bevendo un Billy quando Daniel Bertoni, proprio in quel Fiorentina Juventus di cui parlavo all’inizio, segnò il bellissimo gol del 3 a 2  per noi ( come dice il poeta “la Storia racconta come finì la corsa”, poco dopo Contratto realizzò l’autorete del definitivo 3 a 3 ma qui poco importa).

Per me il Billy sa di, pomeriggi col babbo margherite e gioia totale, inattesa, purissima.

Che c’è di più bello nella vita?

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