di Michele Morrocchi
Il cibo a casa mia è un mezzo parente, qualcuno a cui si vuole bene, tanto che tra le espressioni più tipiche che fin da piccolo mio padre mi ripeteva c’era: “mangerei il buio per uva nera”.
Proprio mio padre è fucina di ricordi (oltre che di mangiate) legati al cibo. Sua grande passione i crostini di fegatini che in casa mia sono il piatto delle grandi occasioni e delle feste. Senza crostini non è Natale, ma neanche Pasqua e spesso nemmeno ferragosto.
Dunque in occasione della preparazione dei pasti importanti mio padre ritrovava o meglio riscopriva un altruismo e una propensione all’aiuto davvero encomiabili. Il tutto volto alla preparazione dei suddetti crostini che per uno che preparava, uno se lo mangiava, per poi finire per rigovernare il tegamino col sugo prima con l’ausilio di un cucchiaio e poi, man mano che la tecnologia avanzava, con un cosiddetto “leccategami” ovvero quelle spatole in silicone che aderendo perfettamente alle pareti del pentolino consentono di non disperdere nemmeno una goccia del prezioso impasto.
Naturalmente una volta a tavola si mangiava la sua, generosa, porzione.
Come si può facilmente immaginare in casa nostra i vegetariani non sono contemplati e la ciccia, in ogni sua forma, è adorata e divorata.
Sempre mio padre è solito ripulire le carcasse dei vari piatti preparati, con il risultato, a fine pasto, di avere un ossario nel piatto e di profferire la sua irrinunciabile frase: “mangiato tanto? Ma se ho solo ripulito gli ossi”.
Siamo talmente cicciaioli in famiglia che nel soffritto della minestra di verdura ci va sempre una cotenna di maiale, per “fregar la quaresima” come si usa dire.
Più complesso, nella mia infanzia, il rapporto col cibo da asporto o da strada.
Ricordo la gola che mi facevano i coccoli della friggitoria di Piazza Dalmazia che però erano off limits e venivano concessi di tanto in tanto dalle nonne all’insaputa della mamma. Ricordo il cartoccio, bello unto, di carta oleosa e quella pasta di pane fritta, morbida, calda e salata.

“Profumo di coccoli”, piatto forte dei friggitori fiorentini.
Più disponibili i miei, soprattutto crescendo, verso la trippa, il lampredotto e tutto il quinto quarto. Ci si serviva rigorosamente da Fernando trippaio di piazza Dalmazia, piazza nella quale il babbo passava i pomeriggi dopo il lavoro con Gianni il giornalaio, io prima giocavo con i compagni di scuola (la Birago che per non rischiare fatto io l’esame di quinta elementare decisero di chiudere), poi, nella quale, crescendo facevo i miei primi comizi o passavo le serate al cinema Flora con l’amico Paolo proiezionista eccellente. Fernando che una volta all’anno alla casa del popolo di Careggi faceva un pranzo tutto a base di quinto quarto, che preannunciava i trippa day, e che si concludeva immancabilmente con i cantuccini di Prato; sì ma fritti. Tanto per stare sul leggero.
Naturalmente, al cibo è legato anche uno dei miei primi ricordi con quella che sarebbe diventata poi mia moglie.
Primo invito a cena, ristorante del centro di Firenze, un po’ pretenzioso ma tanta voglia di fare bella figura. Si arriva ad ordinare il secondo io prendo il piccione arrosto, lei un carpaccio di zucchine.
Se non l’ho lasciata quella sera, mi sa che non la lascio più.